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THAILANDIA
Procediamo lungo l'autostrada che diventa sempre più larga: fino a sei corsie per direzione di marcia, tutte però intasate da colonne di macchine che procedono compatte. Arriviamo fino a cinque chilometri dal centro e ormai siamo in vista della confusa selva di grattacieli della City, velata dallo smog. Ci siamo tenuti prudentemente sulla corsia estrema, ma questa si rivelata un pessima scelta: lo svincolo che dovremmo imboccare, indicato solo all'ultimo momento, purtroppo ci sfugge perché è accessibile solo dalla corsia del lato opposto e, pur avendo inserito la freccia e facendo cenni con le mani per chiedere strada, non riusciamo a spostarci sulle corsie parallele perché il fiume di veicoli non ci lascia il minimo spazio.
Spesso tra noi e il taxi, di cui abbiamo annotato il numero, si infilano altre macchine, oppure veniamo divisi da un semaforo rosso; ma i nostro uomo ci osserva attentamente dallo specchietto e ci aspetta. Il traffico è veramente caotico: nessuno rispetta le regole, i tuk tuk e i mototaxi si infilano di prepotenza in ogni metro libero, le strade sono invase dal fumo nero degli scarichi di migliaia di auto e di antiquati autobus urbani e i vigili, che portano una mascherina alla bocca, fischiano e tentano di fare un po' di ordine in questa confusione. Dopo due ore di passione ed un ultimo ingorgo, finalmente arriviamo, scendo dalla cabina con le gambe che ancora mi tremano per la fatica e lo stress.
E' stata una bella prova di nervi, sia per noi che per il tassista, il quale è raggiante di essere riuscito a portarci a destinazione e felice di incassare il resto del suo compenso più una lauta e meritata mancia. Hans e Silvia ci accolgono con grande cordialità e quando ascolano i racconto della nostra disavventura ci consolano: "Nessun ospite è mai riuscito ad arrivare la prima volta da solo a casa nostra!". Troviamo Bangkok completamente stravolta da un brutale modernismo; durante il boom degli anni Novanta sono state costruite selve di grattacieli, molti rimasti incompiuti a causa della crisi finanziaria del 1997, mentre gli ultimi canali sono stati interrati per farci passare sopra autostrade, nuovi viadotti e una sopraelevata. Solo lungo il fiume si è conservato un pizzico dell'antico aspetto tropicale: basse casette di legno, templi e pagode che svettano nell'aria pesantemente inquinata. Nei giorni precedenti, piogge particolarmente violente hanno allagato le strade e lungo il Chao Phraya si cammina su passerelle gettate su grossi sacchi di sabbia: solo questi passaggi precari ci sembrano giustificare l'impropria definizione di Bangkok come "Venezia dell'Asia". Il fiume è gonfio di melma, la corrente impetuosa arriva a filo degli argini e trascina con sé isole galleggianti di giacinti. Sott'acqua per centinaia di chilometri è anche la pianura a nord di Bangkok, in un susseguirsi di pantani, paludi e acquitrini. Le case tradizionali in legno su palafitte sembrano nuotare sul pelo del fango ma sono all'asciutto, mentre quelle moderne costruite in muratura e non rialzate sono sommerse fino all'altezza delle finestre, la gente si muove in barca e sui terrapieni sono stati messi al sicuro i trattori e le altre macchine agricole.
La strada, costruita su un terrapieno, è comunque percorribile e procediamo abbastanza speditamente. L'inondazione ha distrutto le piscicolture e gruppi di ragazzetti armati di reticelle cercano di catturare i pesci liberati: molte serpi si riscaldano al sole acciambellate ai bordi della strada o si attorcigliano all'asciutto sulle canne che fanno la confine ai campi allagati.
Quando incontriamo un rallentamento del traffico o un semaforo, al camper si avvicinano delle donne con grandi panieri che offrono per pochi soldi pietanze incartate in foglie di banana, piccoli polli arrostiti e infilzati in spiedini di legno oppure collane di gelsomini. A Sukhothai la campagna è nuovamente asciutta e visitiamo le rovine di quella che fu l'antica capitale del Siam in sella a biciclette prese a nolo: anche se il caldo continua a non darci tregua, al mattino presto è bello girare su due ruote nel dedalo dei vialetti che costeggiano boschi di bambù, cespugli fioriti e stagni coperti di loto per arrivare alle imponenti rovine di templi e pagode. L'aspetto dei villaggi dell'interno è rimasto immutato con le strade polverose, i banchetti che vendono di tutto, i ristorantini che non sono altro se non un fornello e quattro sgabelli intorno, i risciò che aspettano i clienti. Per pernottare abbiamo cominciato a fermarci nei cortili dei templi buddisti, ben diversi dai nostri monasteri: non ci sono muraglie o portoni e gli spazi aperti comprendono gli alloggi dei monaci e la scuola.
Proseguiamo spediti fino a Chiang Mai che conserva l'appellativo di "Rosa del Nord", ma che ormai è diventata una piccola Bangkok. Ci fermiamo al Wat Suan Dok: l'antica pagoda si trova su una via di grande traffico, ma il complesso è talmente grande che possiamo trovare un angolo silenzioso sotto un gigantesco ficus. Intorno a noi ci sono i banchetti che vendono piccolo mazzi di fiori di loto tagliati in modo artistico da offrire a Buddha e piccole gabbie di vimini intrecciato piene di passerotti che i devoti liberano esprimendo un desiderio. Hans da Bankok ha parlato di noi a David, un suo amico inglese che possiede una casa e un appezzamento di terreno a 20 chilometri dalla città.
David ha già concordato con loro un compenso di 25 dollari e quando offriamo, facendo cifra tonda, 100 dollari per tre mesi e mezzo di rimessaggio, scopriamo che avevano inteso la prima cifra come canone per tutto il periodo e non per un solo mese, e non vogliono avere un dollaro in più: accettano solo dopo le nostre insistenze, ringraziando secondo il loro costume con le mani giunte portate sul petto e chinando la testa. A noi fa piacere lasciare dietro un po' di gratitudine: per capire cosa significhino 100 dollari per questi contadini bisogna tenere presente che la paga media di un operaio agricolo non supera i 2 - 3 Euro al giorno.
Risaliamo il corso del fiume Ping e il traffico è diventato ormai scarsissimo. Sorpassiamo un gruppo di elefanti con le proboscidi penzolanti che marcia da solo in fila indiana lungo il bordo della strada: un grande maschio fa da guida e tutti portano intorno al collo pesanti catene di ferro che servono per trasportare i tronchi della foresta. Superato un passo si scende in una dolce vallata dove sorge Pai, il villaggio da cui partono i trekking per esplorare la zona. Lungo le sponde del fiume le donne lavano i panni e le stoviglie, mentre i bambini fanno il bagno nelle pozze lontane dalla corrente. Siamo accampati poco distante, sullo spiazzo erboso del tempio principale, e osserviamo con ammirazione un gruppo di giovani monaci che giocano con uno strano pallone fatto di vimini intrecciato, usando solo la testa e i piedi: la loro agilità è fantastica, si girano e volteggiano facendo vere acrobazie. Poi un novizio si avvicina e mi dice che l'abate desidera parlarmi: Lisa non è invitata. Saliamo sulla parte superiore del tempio ed entriamo in una specie di sala delle udienze dal pavimento di tek lucidissimo: in fondo, su una poltrona che troneggia in cima a una pedana, circondato da numerosi buddha dorati siede quello che ritengo sia il monaco abate, avviluppato in una tonaca color vinaccia che lascia scoperti un braccio e la spalla. Salgo sul podio per salutarlo, ma il novizio mi strattona per la manica e mi fa scendere dicendo "Down, down".
Ho capito che devo rimanere in una posizione più bassa di quella del monaco e allora mi accoscio sul pavimento alla moda thailandese. L'abate è un omino dall'aria ascetica che mi squadra dietro spesse lenti dall'alto del suo trono, parla lentamente e tramite l'interprete si informa sul nostro viaggio, del paese da cui proveniamo, della nostra famiglia.
La conversazione con la relativa traduzione si prolunga e dopo un po' comincio a smaniare perchè le ginocchia e le giunture cominciano a dolermi, così sono costretto a cambiare spesso posizione ma stando ben attento a tenere i piedi all'indietro, perché rivolgerli verso il monaco sarebbe una grave mancanza di rispetto. Mi sto giusto chiedendo quando finirà il supplizio che l'abate apre il cassettino di un piccolo mobile e ne estrae una catenina con appesa una scatolina di metallo che mi porge: penso che sia un piccolo regalo per la visita e mi appresto a ringraziarlo, quando il novizio mi precede spiegandomi che si tratta di un amuleto molto potente "very powerful" del costo di 1.000 Baht. Con aria contrita, spiego che la mia religione non mi permette di accettare portafortuna, il che mi sembra l'unica motivazione plausibile; ma quando rifiuto un secondo amuleto, che costerebbe la metà, l'udienza viene bruscamente interrotta, il monaco interprete si alza e io lo seguo con sollievo a mani giunte e testa bassa, camminando all'indietro fino all'ingresso della sala, perchè girare le terga all'abate furbacchione sarebbe un'altra mancanza di rispetto.
Saliamo oltre i 1.000 metri fino a Mae Salong, un punto sulla carta stradale della Thalandia, per una strada stretta, rettilinea e decentemente asfaltata ma con una pendenza difficilissima, almeno il 20% che ci costringe ad affrontarla tutta in prima. Sin a una ventina di anni fa in questa zona la coltivazione principale e tradizionale era quella del papavero da oppio, che oggi è stata rimpiazzata da fiori ed ortaggi che vengono spediti a Chiang Mai e oltre: la Thailandia comunque resta il maggior centro del Sud Est Asiatico per l'esportazione dell'eroina, mentre le coltivazioni dei papaveri e le raffinerie sono oltre confine in Laos e Birmania. A Mae Salong c'è uno dei mercati più interessanti della zona e la mattina presto, dai villaggi sperduti nelle montagne circostanti, arrivano le donne curve sotto il peso di ceste ricolme di cavoli e lunghi fasci di una verdura che somiglia la nostra bietola: le trattative con gli acquirenti sono veloci e le gerle vengono caricate sui comioncini che partono a tutta velocità verso la vallata.
La città prospera grazie al traffico di droga e al contrabbando frontaliero: mentre a poche decine di chilometri si vive in capanne senza acqua né luce, qui è possibile trovare di tutto, dalle pietre preziose, ai televisori, dalle più moderne videocamere digitali, ai potenti fuoristrada giapponesi. Tante le banche, con le facciate di marmo lucido, e incredibile il numero degli alberghi di lusso, frutto di investimenti in narcodollari. Poco oltre siamo sulle rive del Mekong, nel cosiddetto Triangolo d'Oro, dove si incontrano le frontiere di Thailandia, Birmania e Laos e pur essendo privo di ogni attrattiva è pubblicizzato da tutte le agenzie turistiche del mondo. Con la distensione internazionale il Mekong sta diventando nuovamente una importante via di commercio. La parte finale del soggiorno in Thailandia sfila attraverso i monotoni paesaggi del nord-est: per centinaia di chilometri si vedono solo risaie coperte di stoppie, che non verranno arate fin al prossimo monsone.
Kohon Kaen, la quarta città del paese, è l'ultima tappa, ormai stiamo per entrare i quella che forse è la terra più chiusa e misteriosa dell'Asia: il Laos.
"La maggior parte di noi porta dentro di sé per tutta la vita un sogno, per noi questo sogno è stato quello di poter fare, un giorno, un viaggio in camper intorno al mondo. Un viaggio che si è alimentato per decenni di letture, proiezioni, incontri con persone che, con i loro racconti, ci rendevano partecipi delle loro esperienze in paesi lontani.
Viaggio effettuato nel 2002-2003 da Cesare Pastore, www.campervagamondo.it. Potete trovare ulteriori informazioni sulle località toccate da questo itinerario nella sezione METE. |
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